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Vado a far la spesa… nella capanna accanto!

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Guerriero papuasiano della tribù Fore alle prese con il suo personale barbecue. Meglio non indagare su cosa – o “chi”… – stia arrostendo!

Qualche anno fa, in qualche località della Nuova Guinea…

É una delle tante feste rituali di un qualsiasi villaggio. Al centro della “piazza principale” – ovvero in uno spiazzo libero dalle solite capanne di paglia! – grandi lingue di fuoco si innalzano verso il cielo e la “banda del paese” – ovvero i “percussionisti” addetti a far risuonare un ossessivo, incessante ritmo che non lascerebbe presagire nulla di buono.

Sembrerebbe una scena di un qualunque B movie su Tarzan, oppure della serie “Indiana Jones alla scoperta di…”, invece è una scena di vita reale, più che reale, tragica, soprattutto quando – noi, immaginari  e invisibili osservatori – scopriamo cosa stanno freneticamente divorando gli uomini del villaggio, a chi effettivamente siano appartenute quelle ossa che vengono quasi religiosamente raccolte in un angolo, accanto al fuoco.

Saremmo più tranquilli nell’identificarle in ossa di qualche sventurato cervo rosso, di un più modesto  coniglio, di una  capra, o di un ben più appetitoso  il cinghiale, tutti animali discendenti da specie importate dai coloni che inizialmente popolarono quelle terre.  Non proveremmo un fastidiosissimo senso di ripugnanza se sapessimo con certezza che la lauta cena consiste in un bel capretto immolato sul fuoco solo e soltanto in onore di un sano appetito dopo una faticosa battuta di caccia.

Invece il desiderato senso di tranquillità svanisce in un istante quando ci si rende conto che le bistecche….al sangue o ben cotte, non molto tempo prima, camminavano nella foresta, lanciavano frecce, preparavano il cibo per l’allegra famiglia che abitava in qualche capanna di qualche altro sperduto villaggio!

Sì, perché stiamo assistendo ad un rito di cannibalismo, o – se volessimo apparire un po’ più “scientifici” – ad una cerimonia celebrata da antropofagi a Denominazione d’Origine rigorosamente Controllata.

Lo so, lo so, ora la vostra mente vaga un bel po’ indietro nel tempo, torna sui banchi del liceo, della scuola, e vi fa improvvisamente visualizzare i celebri versi …

Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.”

… con i quali Dante ricorda le tristissime vicende del conte Ugolino della Gherardesca e dei suoi familiari.

La storiografia ufficiale non ha mai del tutto acclarato cosa effettivamente avvenne nel 1228, nelle buie e affatto confortevoli stanze della fiorentina Torre dei Gualandi in cui Ugolino & Co. vennero segregati. Ma tra le sinapsi della mente di ogni studente è rimasta sicuramente l’immagine dell’affamato Conte che per sopravvivere si sarebbe nutrito dei corpi dei suoi altri sventurati compagni di prigionia.

“Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno…”, una dei danteschi versi che più rimangono impressi nella mente degli studenti!
Nel 1228, il conte Ugolino della Gherardesca, rinchiuso nella fiorentina torre dei Gualandi, sopravvisse nutrendosi dei corpi dei suoi figli? Di certo è sopravvissuta una cupa “aura” di cannibalismo intorno alla sua figura…

Lasciamo Dante e i suoi personaggi e l’eterna dannazione che dovranno sopportare per decine e decine di eoni e torniamo a tempi a noi più vicini…

La maledizione del Kuru

Nel 1976 il Nobel statunitense per la medicina  Carleton Gajdusek documenta anche fotograficamente riti di antropofagia in Nuova Guinea, anche se non ha mai voluto pubblicare le immagini. La qual cosa ha suscitato varie perplessità tra i suoi colleghi medici i quali però non hanno avuto la possibilità di smentirlo sia per la inappuntabile carriera scientifica di Gajdusek, sia per l’importanza delle tesi dallo stesso esposte riguardo ai meccanismi di trasmissione di una rarissima patologia a carattere neurologico – denominata Kuru dagli aborigeni–  confinata, fortunatamente in una ristretta area geografica di quei territori.

Cos’è il Kuru? Cosa ha a che vedere con i riti di cannibalismo?

Vediamo, partendo da alcune ricerche effettuate un ventennio prima dal medico Vincent Zigas.

Egli, infatti, decide di analizzare a fondo le cause di un’anomala crescita di patologie neurologiche che colpivano alcune tribù – con abitudini alimentari discutibili – viventi nella Nuova Guinea.

A suo rischio e pericolo, si introduce tra i membri della tribù dei Fore della Papuasia, affetti da una particolare patologia che gli indigeni chiamano Kuru, parola che nella lingua locale significa “tremore”. Questa patologia è ad esito letale ed è infatti caratterizzata da perdita dell’equilibrio, strani ed innaturali movimenti dei bulbi oculari, oltre ai tremori che le hanno fatto meritare il nome dato ad essa dagli sciamani locali.

Riunione di famiglia in una tribù Fore della Papuasia.
Forse stanno decidendo quale “vicino di capanna” potranno cucinare per pranzo…

I dottor Zigas, preoccupato anche dalla diffusione di tale patologia, avvisa le autorità australiane e due anni più tardi ritorna tra quelle popolazioni insieme al microbiologo e pediatra statunitense Carleton GajdusekUn po’ alla volta, nella mente dei due ricercatori si fa strada la macabra idea che tutto ciò sia imputabile all’usanza cannibalistica di mangiare, durante le cerimonie sacre, il cervello dei cadaveri. Prelevati campioni del sangue e dell’encefalo dei alcune vittime della malattia ed effettuate le analisi, stranamente, non vengono rinvenute tracce della presenza di qualche sconosciuto virus.

Guerriero papuasiano della tribù Fore alle prese con il suo personale barbecue.
Meglio non indagare su cosa – o “chi”… – stia arrostendo!

Di una cosa essi sono certi: solo le donne e gran parte dei bambini che  mangiano il cervello dei defunti possono contrarre la malattia. Infatti, gli uomini adulti – loro sì che sono dei fortunatissimi “buongustai”! – ne sono immuni poiché mangiano solo le parti muscolari dei loro trapassati al fine di assimilarne la forza e il coraggio.

Al termine delle loro ricerche i due studiosi concludono che la sintomatologia osservata, si può suddividere in tre principali fasi:

 

  1. Stadio ambulante, con difficoltà di mantenere la postura assunta, profonde modificazioni della voce, difficoltà a parlare.
  2. Stadio sedentario, in cui la vittima del Kuru non riesce a camminare senza aiuto adeguato, aumentano i tremori, la vittima inizia a ridere senza alcun motivo, tanto che il Kuru, in questa fase, dai giornalisti è stato denominato “laughing sickness” perché provoca scoppi di riso immotivato.
  3. Stadio terminale, in cui la vittima del Kuru non riesce neppure a rimanere seduta, aumentano i tremori, compare l’incontinenza urinaria e fecale, fino al decesso.

E tali conclusioni li hanno portati a pensare che il Kuru sia soltanto la sindrome  di Creutzfeldt-Jakob in seguito mutata in loco proprio a causa dei riti cannibalistici di quelle tribù.

Successivamente, all’inizio degli anni Ottanta un gruppo di ricercatori dell’University College di Londra, guidati dal dottor Simon Mead, è riuscito ad individuare la vera, precisa origine del Kuru, isolando un tipo speciale di proteine, denominate Prioni, normalmente presenti nell’encefalo umano, che però possono modificarsi in forme instabili ed estremamente pericolose.

In pratica, il cervello della vittima assume piano piano una struttura  spongiforme, trasformandosi cioè in una sorta di massa spugnosa, del tutto priva delle capacità di un normale encefalo.

Un po’ quel che successe non molto tempo fa con il famigerato morbo della “mucca pazza”…

In conclusione Gajdusek e gli altri studiosi hanno appurato che la malattia si trasmette solo mangiando il cervello… del vicino di casa!

Homo homini lupus, appunto…

Oltre alla neurologia, altre scienze – come la storia, l’archeologia e la paleontologia – hanno messo in evidenza come le tesi di Gajdusek possiedano uno spessore probatorio difficilmente demolibile.

Lo stesso Erodoto riferisce che alcune popolazioni del Mar Caspio non disdegnavano affatto di preparare saporiti arrosti e bolliti utilizzando prelibate parti anatomiche di qualche loro nemico. Altrettanto hanno fatto secoli più  tardi sia Marco Polo per alcune popolazioni della Cina, sia Colombo per popolazioni del centro America.

Anche in Polinesia, in un lontano passato, avvenivano riti cannibaleschi, con il commento sonoro di questi tamburi totemici

 

Anzi, c’è più di un linguista che sostiene a spada tratta che il termine “cannibale”derivi proprio da “caraibico” con evidente riferimento alle isole esplorate dal navigatore genovese.

Consistenti tracce di cannibalismo sono state trovate negli anni Novanta anche tra i reperti archeologici risalenti ai secoli XIII-XII, relative agli indiani americani Anasazi.

A parte le solite tracce evidenziabili sulle ossa mediante microscopia elettronica a scansione, in alcune pentoloni Christy Turner, bioarcheologo, ha messo in luce tracce di mioglobina di origine umana, ovvero di una emoproteina presente nella muscolatura degli esseri umani.

Nella cosiddetta “Africa nera” ebbero una certa notorietà tribù dedite al cannibalismo, chiamate (onomatopeicamente?) “Niam Niam” che – guarda che combinazione! – nella lingua locale significa “grandi mangiatori”.

Africa della fine dell’Ottocento. Alcuni guerrieri cannibali “Niam Niam” forse in attesa… di fare la spesa.

Sempre in Africa come non ricordare i terribili “uomini leopardo” nei cui riti di iniziazione si imponeva al giovane guerriero di mangiare il corpo di una vittima (magari “non casuale”) per rafforzare lo spirito di appartenenza alla tribù.

Nell’Africa subsahariana si era curiosamente diffusa la notizia che gli organi interni degli albini – certamente per la “stranezza” del loro aspetto tra quelle popolazioni di pelle scura! – possedessero particolari proprietà terapeutiche.

Così, le autorità locali, per impedire casi di profanazione di tombe e, forse, di necrofagia hanno provveduto a cementare letteralmente l’ultima dimora di chi, passato a miglior vita, era nato con capelli bianchissimi, pelle chiara ed occhi “rosseggianti”.

 Dalla Cina… con “sapore”

No, non è l’ennesimo film sul “Kung-fu”, state tranquilli (ma non lo sarete a lungo…)!

Tutti sanno che la medicina tradizionale cinese – e dei popoli del Far East in generale – si avvale degli ingredienti più strani per curare, o cercar di curare, ogni malattia.

Dalla pelle di qualche batrace a efficacissimi estratti dai più disgustosi insetti ( sto esagerando lo so, ma così rendo di più l’idea… di quel che vien dopo) praticamente ogni cosa proveniente dal regno animale entra prima o poi a far parte della farmacopea “dagli occhi a mandorla”. Anche – come riferisce il professore cambogiano Khem Maly Cham – la cistifellea estratta da cadaveri (divenuti tali solo per caso?) per essere utilizzata come panacea di indubbia efficacia.

In casi accertati, anziché da cadaveri, la cistifellea veniva prelevata a persone vive, esposta al sole per farla seccare e poi grattugiata sui cibi per curare ogni malanno.

La parte del leone in episodi di cannibalismo sembra proprio l’abbiano fatta i soldati dei famigerati Khmer Rossi, organizzazione politica comunista che ha governato la Cambogia dal 1975 a1979 .

Neppure i bambini – sono stati visti alcuni Khmer Rossi sventrare due bambini per berne la bile – sfuggivano a questo macabro rituale a cavallo tra la medicina rispettosa delle più antiche tradizioni del lontano Oriente e una sorta di “stregoneria” tipica dei periodi più bui dell’Occidente medievale.

Ormai siamo abituati agli orientali “intrugli”, al “passato di rospo”, alle simpaticissime zampine di lucertola o al ben più ricercato  Cordyceps sinensis,  strano incrocio tra un bruco ed un fungo, diffuso in Tibet anche per i suoi decantatissimi effetti afrodisiaci che relegano all’ultimo posto l’ormai desueto “Viagra”.

Questo strano incrocio tra Regno animale e Regno vegetale – il Cordyceps sinensis – è molto apprezzato come ingrediente della medicina tradizionale cinese.
Ha surclassato abbondantemente la “pillola blu”, il “Viagra”…

Ma ben di più suscita la ripugnanza della persona comune, abituata a schemi mentali tradizionali, il sapere che i descritti episodi di cannibalismo “terapeutico” sono davvero avvenuti durante la guerra civile in Cambogia.

Il reporter australiano Neil Davis descrive più che efficacemente ad orripilanti scene in cui militari cambogiani squartavano i loro nemici appena uccisi e ne mangiassero il fegato forse per assimilarne improbabili doti di coraggio!

I famigerati Khmer Rossi ebbero il loro da fare per dissuadere i soldati, ma anche la popolazione affamata, dal cibarsi dei loro simili. Infine, Denise Affronco, all’epoca operante presso l’Ambasciata di Francia in Cambogia assistette inorridita allo sventramento di un prigioniero ancora vivo, all’estrazione del suo fegato palpitante e alla cottura su una stufa della “prelibata” parte anatomica, per essere divorata con grande gusto dai militari.

Se avete necessità di una breve pausa per “riprendervi”, fate pure!

Poi continueremo il viaggio tra questi quasi incredibili lati oscuri della personalità umana…

“Madame Lucy”, antropofaga delle caverne?

Ricordate “Lucy”, l’Australopitecus afarensis i cui resti sono stati scoperti in Africa nel 1974 e così battezzata perché in quei giorni, alla radio, trasmettevano più volte la nota canzone dei Beatles “Lucy in the sky with diamonds”?.

Ricordate che ella – ebbene sì, si trattava di una gentile signora vissuta quattro milioni di anni fa – è stata ritenuta il progenitore più antico dell’Homo sapiens sapiens?

Ebbene, il suo scopritore, il dottor  Donald Johanson, insieme ad un altro grande scienziato, poco più di vent’anni fa, ha  dimostrato con chiarezza come i nostri lontani antenati della preistoria praticassero il cannibalismo. Le ricerche, di Johanson, già direttore dell’Istituto delle Origini Umane presso l’università californiana di Berkeley, insieme al suo “maestro” il professor  John Desmond Clark, hanno infatti consentito di affermare che…

“ Esistono prove scientifiche che dimostrano con chiarezza come i nostri lontani antenati della preistoria praticassero il cannibalismo. Le ricerche sulle pratiche antropofaghe dei nostri progenitori si stanno svolgendo proprio da noi, all’Università di Berkeley”.

Donald Johanson e John Desmond Clark, autori di un approfondito studio sull’antropofagia presso i popoli primitivi.

Chi scrive ritiene che la deduzione di Donald Johanson e di John Desmond Clark non possieda sufficiente spessore probatorio, opinione questa autorevolmente espressa all’epoca dall’antropologo William Durham, dell’Università diel Stanford.

Sul fronte opposto si è invece espressa l’antropologa Paola Villa, dell’Università del Colorado, la quale ha rinvenuto, nelle caverne di Fontbregoua, nella Francia  del sud-ovest, resti ossei di “Homo sapiens” del Neolitico, senza perifrasi da lei stessa definiti “… macellati mescolati come animali”, resti che con le usuali osservazioni al SEM (Scanning Electron Microscopy) hanno mostrato segni di uno spolpamento appena successivo a quello della morte del legittimo proprietario finito… in padella.

Un sospiro di sollievo: non prima!

Particolare degno di un film horror di serie B è stato quella della presenza di fratture ossee eseguite ad arte “… per poter estrarre il nutriente midollo osseo dal loro interno…”.

Kilers – Gli apostoli del male

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