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Scafismo – Metodo di tortura

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Dopo l’articolo sull’uomo mielificato non potevo fare a meno di parlarti dello scafismo. Questo è un antico metodo persiano di condanna a morte tramite tortura.

Usato dai Persiani e descritto dai Greci, questi ultimi erano di solito i destinatari di tale tortura.

Come si eseguiva lo scafismo?

La vittima veniva spogliata, messa all’interno di una canoa o di un semplice tronco d’albero scavato e legata saldamente. Le braccia, le gambe e la testa fuoriuscivano però dalla barca. Poi un’altra canoa, o un altro tronco scavato, veniva messa sopra il corpo della vittima, avendo cura di lasciare allo scoperto braccia, gambe e testa.

In seguito veniva nutrita solo di latte e miele fino a procurare una forte diarrea. Dell’altro miele veniva poi versato sopra il corpo, soprattutto su viso e genitali, per attirare gli insetti.

Il malcapitato veniva quindi lasciato in una palude dove zanzare, mosche, api, vespe e altri insetti, attirati dal miele e dagli escrementi accumulati, cominciavano a deporre larve nel suo corpo.

Gli insetti mordevano e pungevano la vittima, interrompendo il normale afflusso di sangue. Questo provocava cancrena e faceva patire al malcapitato dolori atroci.

Di fatto, questo faceva sì che il suo corpo si putrefacesse mentre era ancora vivo.

La vittima veniva nutrita, sempre a base di latte e miele, per vari giorni per evitarne la disidratazione. In questo modo si ritardava la morte, facendola soffrire più a lungo.

Quando finalmente la morte sopraggiungeva, era dovuta alla fame, alla disidratazione, o alle infezioni.
In alcune versioni gli insetti non mangiavano la carne della vittima ma lo pungevano e mordevano, causando in ogni caso molto dolore.

In un’altra versione della tortura, invece che all’interno di una barca,

la persona veniva messa all’interno del ventre di un cavallo, lasciando fuori gli arti e la testa: in questo modo avrebbe dovuto sopportare il supplizio di una doppia putrefazione.

Condannati allo scafismo

scafismoA morire tramite scafismo fu Mitridate, un soldato dell’esercito del sovrano persiano Artaserse II. Il fratello di Artaserse, Ciro, decise di sfidarlo per il posto sul trono di Persia e ne nacque una guerra civile.

L’esercito di Ciro sembrava avere la vittoria in pugno, ma un soldato di Artaserse chiamato Mitridate scoccò una freccia che andò a conficcarsi dritta nella testa di Ciro. Artaserse ne fu felicissimo e ricoprì Mitridate di doni e di ricchezze, a patto che non rivelasse mai di avere ucciso Ciro. Artaserse voleva infatti che si credesse che fosse stato lui a uccidere il fratello e a vincere la battaglia. Un giorno però, dopo essere stato invitato a un banchetto dal suo sovrano,

Mitridate si ubriacò e raccontò a tutti la verità, di come fosse stato lui a uccidere Ciro e non Artaserse. Il sovrano, adirato, condannò Mitridate a morte tramite scafismo.

Plutarco descrive la tortura, ed è testimone della morte di Mitridate, avvenuta ben settanta giorni dopo l’inizio del supplizio.

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